L’epica dello sport e il sogno americano
Ci sono due aspetti del libro di Maurizio De Tullio che mi hanno prima stupito e poi conquistato.
Il primo è il recupero di una dimensione epica dello sport, una dimensione che va progressivamente impoverendosi, rarefatta ed oltraggiata dalla cultura del tempo reale, della diretta televisiva. Immagini e moviole che annichiliscono il tempo e lo spazio, ne abbreviano il respiro, e non lasciano ormai più spazio al ricordo che sublima il gesto agonistico, e lo rende immortale.
Siamo il paese che consuma il maggior numero di parole e di pagine di sport, avendo il maggior numero di quotidiani sportivi al mondo. Ma son parole che non diventano memoria, che non si sedimentano. Come dice Ugo Riccarelli in una bella raccolta di racconti sportivi (“L’angelo di Coppi”) dando voce allo sfogo di un cronista di sport, «chi sfoglia i giornali ogni mattina lo fa per dimenticarli, oppure per il dialogo casuale del pomeriggio, e perciò non è strano che ormai nessuno ricordi».
Eppure lo sport è per sua natura memoria: gesto che diventa storia, e storia che diventa epopea, mito, leggenda nel caso dei grandi campioni. Ancora Riccarelli scrive, più avanti nello stesso racconto (è sempre l’umile cronista a parlare): «Non vi tragga in inganno l’apparente pochezza di questo mestiere: raccontare le gesta degli atleti è esercizio di epica non meno del commentare le storie di Ulisse e della sua Itaca.»
C’è molto di Ulisse in Raffaele “Ralph” De Palma: nel viaggio transoceanico che porta lui e la sua famiglia dall’Italia all’America c’è scritto un destino. Il timore del viaggio verso l’ignoto viene temperato dal desiderio di conoscenza, di nuovo.
E non tragga in inganno – potremmo dire, parafrasando Riccarelli – l’apparente neutralità del lavoro di Maurizio De Tullio. Se il piglio è quello dello storico, che spulcia tra gli archivi, mette a punto date, nomi e cognomi, sistema eventi, rivisita e ridimensiona leggende, il risultato è lo stesso un racconto epico.
Lo impone il personaggio, lo impone il contesto.
Pensate cosa doveva essere l’automobilismo agli inizi del secolo scorso, quando il motore a scoppio era ancora una invenzione recente, e la velocità una bizzarra manifestazione d’un progresso tecnologico che ancora non era ben chiaro se e come si sarebbe sviluppato. Ogni corsa era una sfida con il destino, prima ancora che con gli avversari. Ogni corsa era un tributo al futuro.
È proprio il rigore storico e saggistico del lavoro di Maurizio De Tullio a togliere dalla figura e dalle gesta di Ralph De Palma la patina del tempo, restituendocene, integra, la sua dimensione epica. Confesso che prima che Maurizio mi parlasse dell’opera che stava scrivendo non sapevo nulla di De Palma, né, tantomeno, che fosse un figlio della terra di Capitanata. Ci voleva quel lavoro certosino, quel frugare tra la polvere degli archivi, per collocare giorni e distanze, per sistemare lo spazio ed il tempo, per restituire a Ralph il suo spessore epico.
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L’altro aspetto del libro che mi ha intrigato (anzi, diciamolo pure, commosso) è l’assoluta aderenza di Ralph De Palma alla metafora dell’emigrante, e del sogno americano.
Una metafora così perfetta che, nel corso della lettura, sono stato sfiorato dal dubbio che non di un saggio storico si trattasse, ma di una di quelle “finzioni” tanto care a Borges, nel senso che fosse tutto inventato: date, citazioni, protagonisti, comparse. È tutto così impossibile, da suscitare ad ogni pagina la domanda: ma com’è stato, alla fine, possibile tutto questo?
Invece è proprio tutto vero, e sta qui il bello dello sport, che rende possibili anche le cose più inverosimili.
Probabilmente, quando Ralph e la sua famiglia andarono via da Biccari, il bambino che sarebbe diventato l’uomo più veloce del mondo non aveva mai visto passare neanche un’automobile. Le sole ruote che conosceva dovevano essere per lui quelle della bicicletta, o dei carri trainati dai cavalli.
Ma varcato l’oceano tutto è possibile, nonostante che il sogno sembri finire già sotto l’ombra della Statua della Libertà, nonostante per gli emigranti italiani le condizioni di vita siano difficilissime.
Dalla cultura contadina della sua terra d’origine, però, Raffaele doveva aver ereditato la testardaggine, l’ottimismo suggerito dalla tenacia, che diventa alla fine senso della sfida, e si confonde nel sogno americano.
La storia individuale d’un uomo diventa epica quando è paradigma d’altre storie.
La storia di Ralph ci insegna che il sogno americano sta dentro tutti noi; non è questione di contesto, civiltà, cultura.
L’epopea di De Palma ci insegna che, per cercare di tagliare i traguardi più ambiziosi, bisogna, prima di tutto, osarli. Avere il coraggio di sognare.